Miniere in mare aperto, a grandissime profondità, sfruttate da piccoli robot: ecco il Deep Sea Mining, lo sfruttamento minerario dei fondali marini per sostenere la transizione ecologica.
Ma quali sono le ragioni che spingerebbero a investire in imprese di questo tipo? Si dà il caso che i fondali oceanici siano ricchi di metalli rari che diventeranno sempre più richiesti sul mercato nei prossimi anni.
La tanto auspicata transizione ecologica, infatti, dipenderà dalla disponibilità di metalli come cobalto, nichel e rame. Materiali indispensabili per la produzione di batterie, tecnologie legate alle energie rinnovabili , smartphone e, naturalmente, collegamenti elettrici.
Se fino a poco tempo fa le compagnie minerarie si sono limitate a finanziare esplorazioni e mappature dei fondali oceanici, la spinta della transizione ecologica ha rinnovato l’interesse verso il Deep Sea Mining.
Questi metalli sono rari e sempre più richiesti, fattori che ne hanno fatto impennare il costo rendendoli appetibili per le compagnie minerarie.
Il campo è totalmente nuovo e necessita una tempestiva regolamentazione, ma la mancanza di studi approfonditi sui fondali oceanici rende ciò un salto nel buio.
Quali potrebbero essere i danni ambientali del Deep Sea Mining è ancora un’incognita ma le istituzioni si stanno già muovendo per emettere le prime concessioni di sfruttamento.
L’Unione Europea, con la sua agenzia per la regolamentazione dei fondali marini (ISA, International Seabed Authority), progetta di ottenere un accordo globale entro due anni; mentre la Norvegia intende già emettere i primi permessi entro il 2024.
Quali danni ambientali potrebbe provocare il Deep Sea Mining?
Le miniere in mare aperto potrebbero danneggiare la flora e la fauna dei fondali marini?
Per rispondere a questo quesito, gli esperti dovrebbero avere a disposizione studi approfonditi sui fondali che, purtroppo, ad oggi ancora non esistono.
La profondità, infatti, rende molto difficili le indagini scientifiche: parliamo di fondali a una profondità di 4.000-5.000 metri. Non a caso, per la raccolta dei cosiddetti noduli polimetallici che contengono i metalli rari vengono impiegati piccoli robot.
Gli unici studi esistenti sono quelli che la ISA dichiara di possedere ma si basano su dati forniti dalle stesse compagnie minerarie che mirano a sfruttare i giacimenti oceanici.
Tutte le ipotesi
Sui potenziali pericoli derivati dal Deep Sea Mining sono state avanzate una serie di ipotesi.
Prima di tutto, alcune ricerche ipotizzano che il rumore provocato dalle operazioni di estrazione potrebbe avere un impatto dannoso sulla fauna marina.
Analogamente, altre ricerche sottolineano il potenziale impatto luminoso e quello legato alle vibrazioni.
Inoltre, tra le conseguenze più pericolose c’è il sollevamento di nubi di sedimenti causato dalle operazioni di estrazione dei noduli polimetallici. Queste nubi danneggerebbero gli ecosistemi e, soprattutto, trasporterebbero in superficie metalli pesanti grazie al fenomeno dell’upwelling, mettendo a rischio tutta la colonna d’acqua soprastante con gli organismi presenti.
Ad oggi, l’unico criterio applicabile è quello del principio di precauzione (do not harm principle), che consiste nel bloccare le attività fino a quando non si avranno informazioni più precise sulla loro pericolosità.
Tuttavia, è chiaro che il processo che porterà alle concessioni si sia ormai messo in moto. Urgono studi indipendenti sul Deep Sea Mining su cui basare una regolamentazione che salvaguardi l’ambiente marino.